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Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa progressiva del sistema nervoso centrale. I sintomi includono una perdita del controllo motorio che porta a tremori, rigidità e difficoltà di equilibrio e movimento, e possono progredire fino a sbalzi d’umore, psicosi e demenza. Almeno l’1 % degli adulti di età superiore ai 60 anni ne è affetto e, sebbene esistano dei trattamenti, non esiste una cura.
Le cause del Parkinson continuano a sfuggire ai ricercatori ma decenni di ricerca hanno fornito alcuni indizi importanti. Tra questi c’è il ruolo delle proteine, in particolare dell’alfa-sinucleina. Questa proteina neuronale svolge un ruolo importante nella funzione cerebrale sana, ma è suscettibile di errato ripiegamento, un processo che vede le proteine deformate formare aggregazioni nelle cellule.
Sebbene non vi sia consenso, una teoria suggerisce che il passaggio di questi grumi tossici da un neurone all’altro sia la causa della progressione del morbo di Parkinson. Il lavoro svolto nell’ambito del progetto SYN-CHARGE, finanziato dal programma di azioni Marie Skłodowska-Curie, ha identificato un nuovo modo per colpire queste proteine mal ripiegate.
«Le proteine mal ripiegate possono avvelenare le cellule nervose sane che fanno funzionare il nostro cervello», spiega Birthe B. Kragelund, docente di Scienze biomolecolari presso l’Università di Copenaghen, in Danimarca. «Questo, a sua volta, provoca la morte dei neuroni che producono dopamina, innescando i sintomi caratteristici del Parkinson, come i deficit motori e cognitivi, che peggiorano nel tempo.»
Come osserva Kragelund, la dopamina è un messaggero chimico responsabile della trasmissione di informazioni da neurone a neurone. È anche responsabile di assicurare che i movimenti siano fluidi e non a scatti o troppo rigidi, come nel Parkinson.
Specchio dei complessi proteici disordinati
Il progetto si è concentrato principalmente sugli enantiomeri, due composti che contengono tutti gli stessi componenti molecolari ma sono l’uno l’immagine speculare dell’altro.
«Pensate agli enantiomeri come alla mano destra e alla mano sinistra», spiega Kragelund, che ha svolto il ruolo di coordinatrice del progetto. «Sebbene entrambe le mani riflettano caratteristiche simili tra loro, chiaramente non sono uguali.»
Le proteine (e i loro cugini più piccoli, i peptidi) sono costituite da centinaia o addirittura migliaia di amminoacidi, legati tra loro a formare lunghe catene. Le proteine presenti in natura, compresa l’alfa-sinucleina, sono composte da aminoacidi «mancini» o levogiri (L). Tuttavia, gli amminoacidi hanno una versione "destrorsa", nota come forma destrogira (D). Uniti insieme, questi amminoacidi D possono produrre una catena peptidica speculare - rara in natura, ma realizzabile in laboratorio.
Il team di Kragelund ha scoperto che questi peptidi D hanno il potenziale per legarsi alle proteine L-alfa-sinucleina mal ripiegate. «Le proteine ben strutturate non sono in grado di interagire con l’immagine speculare del loro partner di legame, perché le proteine non si incastrerebbero, ma le proteine disordinate possono farlo», osserva Estella Newcombe, ricercatrice principale del progetto e assistente all’Università di Copenaghen.
Trattamento del morbo di Parkinson con i peptidi D
Questa scoperta contraddice le nozioni preconcette sulla capacità delle proteine a immagine speculare di interagire con il loro partner invertito. Questo risultato apre la strada all’uso degli enantiomeri come mezzo per colpire le proteine disordinate che si pensa causino il morbo di Parkinson.
«Le terapie a base di peptidi sono sempre più spesso oggetto di studio, e il nostro lavoro posiziona i peptidi D quale opzione interessante in quanto non sono prontamente degradati dall’attività proteolitica dei sistemi biologici, il che potrebbe rendere il trattamento più duraturo», osserva Newcombe.
La chiave è trovare il giusto peptide D che interagisca con l’alfa-sinucleina. Se riusciamo a trovare un partner di legame per l’alfa-sinucleina disordinata che le impedisce di formare aggregati, o grumi, possiamo creare una versione di peptide D di questo partner di legame che è molto più stabile nell’organismo», aggiunge Newcombe. «In teoria, una minore aggregazione significherebbe neuroni più sani e una minore patologia.»
E conclude: «Dimostrando che le proteine L e D possono interagire in determinate condizioni, abbiamo spinto i confini di ciò che sappiamo sulla biochimica delle proteine e abbiamo gettato le basi per la ricerca di possibili nuove terapie per il trattamento del morbo di Parkinson». Il lavoro potrebbe anche essere utile per il trattamento di malattie simili che si pensa siano causate dall’errato ripiegamento delle proteine, come la malattia di Alzheimer e quella di Huntington.